“Allora ci vediamo non questo Venerdì ma quello della prossima settimana alle 8.30; passo a prenderti in macchina e andiamo a fare il codice fiscale e poi la tessera sanitaria. Ti raccomando telefonami se non puoi venire. O meglio fammi telefonare. E’ tutto chiaro? Anche per te?”
La moglie fa cenno di si. Ho spiegato loro tutto: dove dobbiamo andare; che documenti dobbiamo portare, li abbiamo messi da parte insieme, in una busta trasparente, cosicché non vengano persi. E’ importante la sua tessera sanitaria, in modo che iscrivendoci successivamente i figli, questi abbiamo l’assistenza sanitaria garantita.
Il Trifu, è romeno, malgrado dimostri molti più anni, è nato nel 1982; è sposato e ha due figli: un bambino di due, forse tre anni e una splendida neonata di ormai due mesi, che quando la si tiene in braccio, ti guarda come se volesse chiederti che cosa l’aspetta crescendo in questo mondo.
Li ho conosciuti un Giovedì quando, di turno fuori dal container adibito ad ambulatorio medico all’interno del campo, sono stato avvicinato da una ragazza, che mi ha trascinato nella roulotte della sorella, facendomi notare con preoccupazione la neonata che piangeva e doveva essere medicata all’ombelico. Allora aveva soltanto una settimana.

La mattina è grigia, e quell’inconfondibile odore acre del campo, è soprattutto nel periodo estivo che incomincia a farsi sentire pesantemente; è un odore che per giorni rimane sui vestiti, all’interno delle macchine. Ce lo si sente ovunque addosso, anche fuori dal campo.
La roulotte dei Trifu fa parte del primo gruppo appena si entra nella strada senza uscita parallela al campo. Parcheggio lì, noncurante del fatto che normalmente non è posto dove lasciarvi macchine incustodite, perché potrebbero non essere sicure in questa area; ma con la solita tranquillità scendo e percorro la strettoia, in bilico tra assi di legno che vengono sistemate grossolanamente per non infangarsi quando piove. Sono quattro, cinque roulotte sistemate una di fronte all’altra, con le porte d’entrata che si guardano vicendevolmente. Sembra di entrare in un grosso salotto a cielo aperto, non più grande di 10-15 mq; vi è un tavolo in mezzo. Qui vivono una quindicina di persone fra bambini e adulti, della stessa famiglia, credo.
Non c’è nessuno, anche se sono le 8.30 e si svegliano molto presto, dicono. Le porte delle roulotte sono tutte aperte, ma dentro neanche un anima. Busso a quella dei Trifu:
“Ciao, tuo marito?”
“E’ andato a Ferrara!”
C’è qualche secondo di silenzio in cui ci si guarda negli occhi. Forse nessuno dei due sa che cosa dire. Forse io saprei che cosa dire, ma le parole non escono perché il mio sguardo è catturato da quello della neonata in braccio alla mamma. Un cenno di saluto e inizia il gioco; mi afferra l’indice con la manina e stringe con forza. Mi osserva silenziosamente con gli occhi spalancati e un’espressione a punto interrogativo. Accenna ad un timido sorriso. Volano via credo quindici minuti, senza che me ne accorga.
“Di a tuo marito di venire Giovedì al container che ci mettiamo d’accordo per un altro giorno. OK?!?!”
Un unico cenno d’assenso con il viso, sempre accompagnato da un’espressione di vissuta tristezza: indescrivibile.
Mi allontano ed esco dal “salotto”, mi volto e faccio uno stupido cenno di saluto muovendo soltanto le dita della mano aperta alla bimba.
Un cenno di saluto anche alla madre e “Ciao”
“Ciao” risponde muovendo leggermente la testa all’insù….
…”Scusa” -la stessa dolcezza che ha sicuramente ereditato dalla figlia-.

Esco in strada; la macchina c’è ancora. Così anche le volte successive.
Dovrei essere furente: avrò fatto almeno tre quarti d’ora di strada per arrivare lì ed altrettanti dovrò farne per ritornare da dove sono venuto. Eppure mentre salgo in macchina, sorrido compiaciuto, come quando ti accorgi di avere complicità con una persona che non conosci nemmeno e soltanto questo ti da una carica incredibile.
Paradossalmente sono arrabbiato con me stesso, perché mi sento parte di una realtà che nega ad una creatura così piccola di avere le stesse possibilità dei suoi coetanei; ma anche perché abbiamo, ancora una volta, rimandato di far valere il diritto di avere un medico, ad un poveraccio che vive con la famiglia in una condizione disumana…e che se n’è andato momentaneamente a Ferrara dal cugino.

Come quasi tutti i Giovedì sono davanti alla porta dell’ambulatorio, nel mio ormai imprescindibile ruolo di dispensatore di numeri per l’accesso alle visite. Cerco di destreggiarmi nel tentativo di quietare gli animi dei pazienti troppo impazienti; provo ad acquietare i bambini, sempre così genuinamente energici nei loro giochi.

Un sorriso anticipa un leggero movimento del capo che nel mio linguaggio simbolico significa “mannaggia a te!!”; il messaggio gli è arrivato; incomincia a gesticolare ed emettere i suoni tipici del sordo muto ed io capisco, credo, solo una “parola” delle cinque che mi vorrebbe dire, ma alla fine comprendo quasi sempre. O almeno me ne convinco. Mi trascina nel suo “salotto” continuando a “parlare”, per portarmi dalla moglie che funge da traduttrice e accordarci per un nuovo appuntamento. Continua a farmi le scuse, ha avuto un imprevisto dell’ultimo momento; il cugino aveva un problema che solo lui poteva risolvere e poi…l’invasione delle cavallette, il terremoto, la nube tossica e chissà cos’altro. Alla fine mettendosi una mano sul petto comprendo le sue scuse; che non succederà più. Lo sguardo è quello di tutta la famiglia, di una dolcezza spiazzante, dispiaciuto; oppure al contrario mi sta prendendo in giro recitando egregiamente. Sono più propenso ad accettare la prima romantica ipotesi.

Ci si accorda per il Mercoledì successivo.

Un sorriso a trentadue denti mi accoglie insieme al bambino piccolo, sul lato del marciapiede, la fatidica mattina.
Sembra un sogno, eppure finalmente ci siamo, prossimi ad ottenere quello che agli occhi dei più sembrerà una cosa di ordinaria amministrazione, ma che in quel contesto è fonte di costanti azioni di convincimento. Destinazione via della Moscova, dove ci fanno il codice fiscale senza nessun problema; mi sembra di continuare a vivere nel sogno; mi ero preparato tanti di quei discorsi da fare all’impiegato che ci avrebbe potuto negare questo diritto, che i giorni precedenti mi sembrava di prepararmi per la recita di un copione di teatro. L’occasione è da sfruttare fino in fondo e,malgrado la tarda ora d’ufficio, ci dirigiamo in P.le Accursio, dove speriamo ci attenda la nostra tessera sanitaria.
Nella estenuante attesa è tutto un comunicare a gesti. Credo che ci si intenda alla perfezione, ma poi mi accorgo che mi rivolge sempre le stesse domande: mi puoi trovare un lavoro, i bambini sul permesso di soggiorno, lo stesso che scade a breve e io do le stesse risposte, sempre più semplificate. Non capisco se non mi spiego o se lui non riesce a “leggere” parole in italiano.
Si accomoda su una sedia mentre attendiamo il nostro turno, ma non prima di avermi chiesto se mi voglio sedere io e quando una signora piuttosto anziana gironzola intorno, lui si alza premurosamente e le cede il posto, facendole segno con la mano di accomodarsi.
Siamo il numero 68 e il tabellone segna solo il 42; è tardi e mi chiedo se arriverà il nostro turno prima della chiusura per la pausa pranzo, perché in tal caso dovremo risvegliarci dal sogno e ritornare un altro giorno.
Tra la gente seduta, non mancano i soliti commenti sulla presenza massiccia degli extracomunitari in quell’ufficio, come nel resto della città; ma non sono razzisti, non è per il colore della pelle. Alla luce di questi commenti mi viene quasi da sorridere quando mi accorgo che due suore arrivate da poco, probabilmente complice il vestito che portano, si sono abilmente infilate tra un numero e l’altro, senza commento alcuno dei presenti. Passa più di un quarto d’ora da quando occupano uno sportello e la prima timida rimostranza arriva da un anziano seduto che commenta il sopruso con il vicino di sedia, con una voce leggermente più alta del normale che non è diretta alle due sorelle, ma intende volutamente arrivare fino a loro. Quando finalmente queste si dirigono verso l’uscita, lui sussurra di andarsi a confessare. Il Trifu capisce e prima di sorridere scuote la testa. “Che gran paese è l’Italia”, mi viene da pensare.
Andiamo a prenderci un caffè alla macchinetta del piano di sotto.
Mi racconta che in questo posto conosce molti vigili, sanno il suo nome e in effetti, dopo cinque minuti passa un graduato che lo saluta da lontano e lui ricambia. Questo gesto mi rassicura, non fosse altro perché dimostra che qualcosa di ciò che mi dice è compreso.
Non rinuncio alla domanda che volevo fargli da settimane: “Ma tu perché hai chiesto asilo politico?”. Mi guarda quasi sorpreso “Boh!”, è l’espressione. Non lo sa nemmeno lui! Mi sembra di capire che alla frontiera, quando è entrato in Italia, glielo hanno fatto direttamente, come si fa con chi ha problemi di persecuzioni nel paese d’origine.
Qualche dubbio, rabbia, perché neanche lui sa che cosa gli sta accadendo, che cosa comporta avere un permesso di soggiorno con quella motivazione.

E’ il nostro turno. Il sogno si è parzialmente concluso indolore. Sono sconcertato, forse avrei voluto che ci creassero dei problemi, perché ora sono felicemente spiazzato. Ci hanno anche dato spontaneamente il foglio per l’esenzione del ticket, cosa che non avrei richiesto perché ignoravo. La soddisfazione è grande, per una cosa così semplice.
Nella breve tragitto per il ritorno al campo, mi racconta più che attraversando la città. Mi dice che siamo bravi a venire al campo tutti i Giovedì, che sono contenti che ci siamo, che la Laura gli ha organizzato una visita all’ospedale per i figli; che la Laura è entrata nel cuore della loro famiglia. Mi chiede se sono sposato e gli racconto brevemente una storia, la mia storia. Mi dice che nella vita bisogna trovarsi con un’altra persona, che è importante, che lui e sua moglie si sono sempre voluti bene e lei è una bravissima donna, che lo aiuta molto anche quando lui la picchia perché è ubriaco. “La prossima volta che picchi tua moglie te la vedi con me”, ma forse non ha capito, sorride; o forse io non sono stato troppo convincente.
Mi propone di andare in vacanza con lui in Romania che conosce una ragazza che starà con me tutta la vita……non fatico a crederci!!!!!

Sulla strada del ritorno, incrociamo la moglie con la bambina, la sorella ed un’amica che vive accanto a loro; stanno trascinando il passeggino e almeno tre sacchetti della spesa ciascuno. Non oso pensare cosa contengano, per quel poco che intravedo.
Tutti in macchina, stipati. Chiedono cosa abbiamo fatto. Il Trifu fa vedere loro la tessera e io spiego all’amica che parla bene l’italiano, che cosa faremo nelle prossime settimane per i figli e per il suo permesso di soggiorno che sta scadendo.
La sorella dice che mi vuole sposare…mi viene spontaneo guardare la bambina e vorrei dirle di non crescere, di restare sempre così.
Arrivati al campo, mi offrono da bere, mi fanno sedere, non mi vogliono più far andare via.

Salgo in macchina, parcheggiata sempre nello stesso posto e mentre esco un bambino in bicicletta che sta rientrando al campo mi saluta vigorosamente sorridendo “Ciao Andrea”.
Cerco ancora di ricordarmi chi sia e come faccia a sapere il mio nome, ma non mi viene in mente.

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